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La filoxenía non è solo una tradizione locale: è una risorsa universale in tempi di crisi, migrazioni e paure. È una via possibile per costruire un mondo più umano, dove l’accoglienza diventa un atto di giustizia e non di concessione, dovere etico e atto spirituale.
Nei borghi dell’Aspromonte (grecanico) l’ospite è considerato sacro.
Omero lo raccontava già duemilaottocento anni fa nell’Odissea. L’accoglienza è sacra e rappresenta un valore fondamentale della civiltà greca. I personaggi offrono ospitalità a stranieri e naufraghi senza conoscerne l’identità, seguendo il principio dello xenía. Ulisse stesso beneficia e rispetta questa pratica, che spesso determina il corso del suo viaggio.
L’arrivo dello straniero diventa occasione per attivare il rito della condivisione: il pane, il vino, il racconto.
Non c’è nulla di esotico o folcloristico in questa narrazione: è la documentazione autentica di una forma di civiltà.
La filoxenía non è buonismo né retorica dell’ospitalità. È una pratica concreta, radicata nella cultura greco-mediterranea, che implica doveri reciproci, rispetto, parola data. È anche uno strumento di costruzione della comunità: l’ospite, in quanto altro da sé, rinnova il senso del proprio essere nel mondo. E in Calabria questa pratica resiste con una forza esemplare.
Attenzione, lo dico a me stesso per primo, lo ripeto anche nel caso di studi come quelli di Patrizia Giancotti, non si deve commettere l’errore di idealizzare la realtà grecanica. Il rischio è quello di fissare queste comunità in una dimensione arcaica, priva di contraddizioni o conflitti.
Perché, vale per tutti, virtù ma anche vizi, non dobbiamo dimenticarci mai di dare più di uno sguardo anche alle difficoltà socio-economiche del territorio, alla marginalità culturale, alla fatica della trasmissione intergenerazionale di questi valori.
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