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“Calabria grecanica. Cultura, memoria e rinascita dell’area grecanica”. E’ stato pubblicato il libro di Nicola A. Priolo, nostro collaboratore, sulla Calabria Grecanica. Dopo il primo libro scritto in lingua neerlandese “In de keuken gaan moderniteit en traditie hand in hand (In cucina, modernità e tradizione vanno mano nella mano)”, un libro sulla filosofia del mangiare. Nicola ha deciso di cimentarsi con questa seconda opera pubblicata presso l’editore Wijn uit Italië. Il libro si trova presso la Libreria Ave, Corso Garibaldi 283 a Reggio Calabria. Nato a Torino, Priolo vive in Belgio ed é laureato in Lingua e cultura italiana per stranieri. Poliedrico, insegna italiano, organizza corsi (di gran successo) di cucina italiana e tante altre cose.
L’abbiamo intervistato per capire meglio di cosa tratta il libro e perché lui é cosí attaccato alla Calabria grecanica
Hai scritto un libro sulla Calabria grecanica, hai un legame particolare con questa terra?
Mio nonno paterno era originario di Santo Stefano d’Aspromonte, quando lo conobbi io viveva da venti anni a Reggio Calabria, dopo una permanenza quindicennale in Africa. Ogni estate, nei primi venti anni di vita, tornavo in Calabria, a Lazzaro, in vacanza. Poi per venti anni questa meravigliosa terra, che tanto mi aveva dato da giovane, era rimasta chiusa nel cassetto della mia memoria: presente ma distante, viva ma sospesa, la regione dei vicoli ruvidi, del sole che taglia le pietre, dei silenzi che parlano più delle parole.
Sapevo com’era, o almeno credevo di saperlo.
Poi siamo tornati. La prima volta, per pochi giorni. E qualcosa è scattato. In quel ritorno, non c’era solo nostalgia. C’era uno sguardo nuovo, una curiosità che non ricordavo di avere. Abbiamo camminato per strade già viste, eppure diverse. Abbiamo rivisto amici di ieri, che sembravano aspettarci anche senza saperlo. Abbiamo parlato con chi non avevamo mai davvero ascoltato.
È lì che è nata la restanza a distanza. Quella voglia di esserci, anche solo ogni tanto. Di tornare, regolarmente, senza bisogno di una scusa.
Ogni viaggio, tante scoperte. Non solo di luoghi nuovi, ma di ciò che già conoscevamo e non avevamo mai veramente capito. Ogni pietra aveva una storia. Ogni saluto una promessa. Ogni angolo una memoria che ci aspettava.
Hai accennato alla restanza a distanza, ci puoi spiegare in cosa è diversa dalla restanza teorizzata da Vito Teti?
La mia restanza a distanza non è un’imitazione della vita nei borghi, ma una forma di alleanza. Un modo per dire: “Io non sono lì, ma ci tengo. Io non parlo quella lingua, ma la rispetto. Io non vivo quella terra, ma la racconto.”
Con amore, spero anche con lucidità, senza idealizzarla. Questo luogo esiste, e vale la pena conoscerlo. Anche da lontano. Anche in una lingua diversa. Anche con un accento neerlandese.
Raccontare la Calabria grecanica da Anversa è un modo per contribuire a tenerla viva, per farla esistere nel mondo, per connetterla ad altri immaginari.
E poi c’è un altro aspetto da non sottovalutare: raccontare da lontano permette uno sguardo diverso. Non essendo immersi nella quotidianità probabilmente si possono cogliere dettagli che sfuggono a chi ci vive. Si può osservare con il giusto distacco di chi ha conosciuto altri mondi, altre lingue, altri ritmi. E questa distanza, se usata con rispetto, può diventare una lente preziosa. Può aiutare a valorizzare ciò che è rimasto, a suggerire nuove vie, a costruire ponti.
Cosa ti è rimasto da una punto di vista umano dei tanti incontri che hai avuto?
La Calabria grecanica è terra di persone ospitali, nella pienezza del senso omerico. Se ne accorsero e ne scrissero molti illustri viaggiatori del passato, come Edward Lear e Maurits Escher, o come il glottologo Gerhard Rohlfs, e anche Cesare Pavese che confinato dal regime fascista a Brancaleone scriveva alla sorella: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”.
Oggi è ancora così. Per i calabresi grecanici, accogliere non è una scelta ma un dovere sacro: lo straniero che arriva in casa, porta con sé un messaggio, una storia, una possibilità di scambio umano e spirituale: offrire pane, vino, una parola gentile, un letto per la notte, sono azioni che riflettono un’etica antica, radicata nel mito e nella religione greca, ma incarnata anche nella quotidianità. L’ospitalità è intesa come apertura all’altro, come ponte tra culture. Omero lo raccontava già duemilaottocento anni fa nell’Odissea. L’accoglienza è sacra e rappresenta un valore fondamentale della civiltà greca. I personaggi offrono ospitalità a stranieri e naufraghi senza conoscerne l’identità, seguendo il principio dello xenía. Ulisse stesso beneficia e rispetta questa pratica, che spesso determina il corso del suo viaggio.
L’arrivo dello straniero diventa occasione per attivare il rito della condivisione: il pane, il vino, il racconto. Non si pensi che sto esagerando, non c’è nulla di esotico o folcloristico in questa narrazione: è la documentazione autentica di una forma di civiltà.
La filoxenía non è buonismo né retorica dell’ospitalità. È una pratica concreta, radicata nella cultura greco-mediterranea, che implica doveri reciproci, rispetto, parola data. È anche uno strumento di costruzione della comunità: l’ospite, in quanto altro da sé, rinnova il senso del proprio essere nel mondo. E in Calabria questa pratica resiste con una forza esemplare.
Attenzione, però, a non commettere l’errore di idealizzare la realtà grecanica. Il rischio è quello di fissare queste comunità in una dimensione arcaica, priva di contraddizioni o conflitti. Perché, vale per tutti, virtù ma anche vizi, non dobbiamo dimenticarci mai di dare più di uno sguardo anche alle difficoltà socio-economiche del territorio, alla marginalità culturale, alla fatica della trasmissione intergenerazionale di questi valori.
Come vedi il futuro della Calabria grecanica?
La Calabria grecanica ha un potenziale enorme. Ma va curato, raccontato con amore, sostenuto con lungimiranza. Non servono solo bandi, ma visioni. Non slogan, ma storie vere. Quelle di chi ha avuto il coraggio di restare. E quelle di chi, magari per caso, ha deciso di arrivare e non è più voluto andare via.
Non basta nemmeno una buona idea o un paesaggio mozzafiato.
La Calabria grecanica, con la sua bellezza ruvida e autentica, ha bisogno di una visione sistemica, di un’organizzazione che trasformi il potenziale in progetto, l’intuizione in realtà. Organizzazione che deve partire da una cabina di regia condivisa. Non un singolo comune che agisce da solo, ma un consorzio tra territori affini, una comunità operativa che pianifica, coordina, comunica. E occorre anche un’offerta coordinata: calendario unico degli eventi, sistema di prenotazioni integrato, trasporti minimamente funzionali (navette stagionali, biciclette elettriche, collegamenti con le stazioni ferroviarie principali).
E ogni turista che arriva dev’essere immaginato anche come un potenziale abitante temporaneo, un futuro residente stagionale, un possibile compagno di strada in questo progetto di rinascita. La vera sfida è questa: trasformare il viaggio in legame, la visita in cura reciproca.
Purtroppo molti segnali sembrano raccontarci di un futuro a tinte fosche per la Calabria grecanica
Alcuni sindaci grecanici parlano di una resa pianificata, di una strategia che non cerca soluzioni ma accompagna la fine. Le scuole vengono chiuse, gli uffici accorpati, i servizi tagliati. I Comuni restano senza tecnici, senza segretari, senza personale. Eppure, devono affrontare emergenze da grandi città: incendi, dissesti, alluvioni.
Municipi dove non ci sono più le figure minime per garantire la sopravvivenza amministrativa, vengono abbandonati al loro tragico destino, una pianificazione di cure palliative per luoghi da decenni colpiti da uno spopolamento irreversibile.
In questo contesto, dove il futuro sembra già scritto, secondo me occorre gettare il cuore oltre l’ostacolo, credendo in se stessi, impegnandosi collettivamente, l’unione fa la forza. Se è quasi impossibile, allo stato attuale, attrarre investimenti stranieri per rilanciare la Calabria grecanica, intanto si potrebbe far fronte comune, dotarsi di un unico ufficio tecnico-amministrativo a disposizione di tutti i borghi grecanici, in modo tale da riuscire a preparare e presentare progetti per ottenere questo o quel finanziamento delle istituzione economiche e finanziarie europee. Serve un cambio di passo, questa volta occorre darsi da fare, in prima persona, male che vada si torna alla casella di partenza. Serve concretezza, tanta. Idealismo, vittimismo e voli pindarici, una buona volta lasciamoli da parte.
Mi è piaciuto molto il capitolo in cui parli del bergamotto come metafora della Calabria. Ci racconti cosa intendi dire?
La Calabria grecanica è come il bergamotto: è unica, inimitabile, ma ha bisogno di cura, racconto, visione. Il bergamotto non è solo un frutto. È simbolo di identità fragile, di eccellenza ignorata, di terra fertile che produce valore senza trattenerlo. Metaforicamente, il bergamotto è la Calabria grecanica: racchiude bellezza, unicità, profumo… ma non riesce a convertirli in benessere diffuso.
Il bergamotto cresce (quasi) solo in Calabria. Come certi dialetti, certe tradizioni, certi paesaggi, ma non può essere esportato. Lo si può distillare, confezionare, vendere… ma la pianta madre resta qui. Come le radici di chi, pur partendo, resta legato alla terra. È restanza vegetale: un radicamento silenzioso, testardo.
Il bergamotto non è coltivato per essere mangiato e consumato come le arance e i limoni. Da esso si estrae un’essenza, tra le più preziose al mondo, la zona dove nasce è tra le più povere d’Italia. Questo contrasto è la metafora di una terra che produce bellezza ma non trattiene sviluppo. Come il talento che emigra.
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