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Offrire il caffè non è solo una cortesia: è un rito di appartenenza, un gesto che racchiude significati profondi, regole non scritte, simbolismi ancestrali. È una forma di linguaggio che non passa per le parole, ma per il suono della moka, il profumo che invade la stanza, lo sguardo di chi ti invita a sederti. Ed è un gesto che non può essere rifiutato, perché chi lo offre, lo fa col cuore, e respingerlo è come rinnegare una parte di sé, di noi, della storia che ci lega.
Chi vive o ha vissuto anche solo una stagione in questi borghi lo sa: entrare in una casa senza che ti venga offerto un caffè è impossibile. Il caffè ti viene offerto appena ti affacci, anche se sei solo di passaggio, persino se non sei atteso. È la prima cosa che ti fa sentire accolto. E se rifiuti, anche con gentilezza, si rischia di offendere chi lo offre, perché quel gesto è più di una bevanda: è comunione, è fiducia, è “ti riconosco come parte della mia casa”.
In questo piccolo rituale si concentrano anni, secoli, millenni, di ospitalità mediterranea. Ma in Calabria grecanica assume sfumature speciali: il caffè non è solo simbolo di modernità, è erede di riti più antichi, quelli delle bevande condivise nel simposio, del vino offerto al viaggiatore, del pane diviso con il forestiero. Qui il caffè ha valore sacrale, prenderlo significa accettare l’invito, lo spazio, la storia. Significa dire “sì, sono qui con te”. E rifiutarlo — anche solo per distrazione, per fretta, per educazione — può essere letto come distacco, freddezza, chiusura. Per questo, anche chi non ama il caffè, lo accetta volentieri: perché il sapore non è importante, è il gesto a contare.
L’offerta del caffè non è solo un gesto di cortesia ma anche un rito codificato, una atto che definisce ruoli, relazioni, gerarchie affettive. Attorno a questo gesto, apparentemente semplice, si sono sviluppati racconti, poesie, dialoghi teatrali e scena di vita che mettono in luce quanto sia profondo il significato dell’ospitalità in questi borghi.
La Calabria grecanica ha trasformato il caffè in un codice culturale, in un gesto che racconta chi siamo, da dove veniamo, quanto teniamo all’altro. I racconti, le poesie, le commedie e le testimonianze raccolte negli ultimi cinquant’anni lo dimostrano: il caffè non è una bevanda, è una dichiarazione di appartenenza.
Il rito è talmente sentito che anche Bruno Casile ha proposto di trascrivere il codice dell’ospitalità caffeinomane della Calabria grecanica, per conservarlo nei registri delle tradizioni orali.
Non è solo nelle case che il caffè si fa conteso: anche nei luoghi pubblici, nei bar dei paesi, il gesto di offrire il primo caffè al nuovo arrivato è spesso motivo di orgoglio. “Lo pago io, è un mio amico,” dirà qualcuno. E l’altro: “No, è ospite mio.” E così si ride, si discute, e intanto il caffè viene servito da chi ha vinto la gara del cuore. Rifiutarlo, in tutto questo contesto, è impensabile. Non perché sia scortese, ma perché interrompe un cerchio sacro, spezza un patto affettivo. Anche chi non ama la caffeina lo accetta, magari lo assaggia appena, ma lo prende. Perché sa che quella tazzina è memoria, radice, riconoscimento.
Ed è talmente radicata questa abitudine, che quando gli amici stranieri mi dicono che vanno in Calabria grecanica, li rendo edotti di ciò. Va bene opporre alla prima offerta un cortese “no grazie”, al secondo tentativo si accetta. Talvolta ti succede di andare alla cassa e scoprire che qualcuno ha già saldato il tuo conto, ti dicono chi è stato. Alla prima occasione buona sarai tu a ricambiargli questo gesto di amicizia e cortesia.
(PRIMA PARTE)
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