Giosuè Carducci, Approfondimenti di Storia e Letteratura

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Nasce il 27 Luglio a Valdicastello, in Versilia, da padre medico. Trascorse l’infanzia nell’ambiente maremmano della toscana e nel 1849 si trasferisce a Firenze, dove frequenta la scuola degli Scolopi. Nel 1853 frequenta la Normale di Pisa dove si laureò in seguito, in filosofia e filologia. Nel 1856 forma la società degli “Amici pedanti”. Nel 1859 sposa Elvira Menicucci. Si trasferisce a Bologna dove 10 anni dopo muore il figlioletto Dante. Nel 1890 è nominato senatore e nel 1906 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore il 16 Febbraio del 1907 per l’aggravarsi di una broncopolmonite.
La poetica e la concezione letteraria:
Giosuè Carducci è, secondo il mio punto di vista, uno dei poeti più contraddittori (insieme al Manzoni) di tutta la letteratura Italiana.
Nella sua concezione letteraria (ma soprattutto politica) confluiscono spinte ambivalenti e contraddittorie. Da un lato egli si schiera dalla parte dei classicisti ponendosi in un atteggiamento fortemente antiromantico e nazionalistico; fonda la società degli “Amici pedanti” e si dedica ad uno stile di poesia aulico e latineggiante, caratterizzato da un forte gusto Ellenico e ispirato da autori tipo Orazio, Vigilio, Lucrezio. Dall’altro, invece, possiamo riscontrare in Carducci elementi di un interiorità inquieta ( il tema della morte e dell’amaro rimpianto) e tendente a una modernità che l’autore della nostra antologia, Romano Luperini, ha osato definire “modernità classicista”. In opere come “Inno a Satana” si può vedere come il classicismo Carducciano si fonda audacemente con gli ideali di fiducia nel progresso (inteso anche come forza demistificatrice) e con la concezione laica e fortemente anticlericale ripresa da Lucrezio.
Le opere:

“Inno a Satana”: Ogni aspetto della modernità era condannato dai reazionari come prodotto di Satana. Carducci accetta questa definizione, ma la rovescia polemicamente in positivo, celebrando la figura di Satana. Le cose che i reazionari esecravano come opera del demonio, per Carducci sono gli aspetti più positivi della vita. Satana è così assunto come simbolo delle gioie terrene, delle bellezze naturali ed artistiche, della libertà di pensiero, della ribellione a ogni forma di dogma e di dispotismo, del progresso e della scienza.
Il trionfo del progresso, nelle strofe finali, si compendia nel simbolo della macchina, la locomotiva, motivo molto caro alla retorica del tempo. Questa concezione è contrapposta a quella del cristianesimo, che per Carducci nega i beni del mondo, la bellezza artistica, il progresso, la libertà, mortifica la ragione col dogmatismo e la gioia vitale con l’ascesi e la rinuncia. Secondo Carducci, oggi, la “forza vindice de la ragione” e del progresso, ha di nuovo vinto ogni oscurantismo e dogmatismo, cancellando l’oppressione religiosa. Levare un inno a Satana assumendolo come simbolo del progresso e della gioia vitale era fortemente provocatorio verso le concezioni conservatrici, benpensanti e clericali, e rivela l’atteggiamento battagliero che era proprio del giovane Carducci.
E’ interessante osservare come questo paganesimo democratico e progressista si rivesta, in Carducci, di forme classicheggianti: il poeta riprende il lessico aulico, la sintassi latineggiante, il peso dei riferimenti dotti ed eruditi che sono propri della tradizione del classicismo italiano.

“San Martino”: E’ un bozzetto scritto nel 1883. Pochi tocchi impressionistici delineano il quadro di un borgo maremmano nel giorno autunnale di San Martino (11 Novembre). Al clima autunnale rinviano il paesaggio nebbioso, l’odore di mosto, il momento della caccia e la migrazione degli uccelli. Nell’anno in cui scrive questa poesia, Carducci aveva trascorso parecchie settimane a Roma. Durante il ritorno aveva attraversato la Maremma toscana, dove aveva passato l’infanzia e l’adolescenza. Nel confronto inevitabile tra città e campagna, il poeta avverte che l’incanto selvaggio della Maremma appartiene ormai al passato. Per questo l’idillio di San Martino è in realtà un idillio inquieto, minacciato. L’aspro odore dei vini può tornare a rallegrare l’animo, mentre allegramente scoppietta lo spiedo; ma uno stormo di uccelli migratori introduce nella scena il brivido del tempo che passa, il senso della precarietà: gli uccelli sono neri e sembrano implicare un senso di morte. Così il quadretto, che potrebbe far pensare a un paesaggio macchiaiolo, resta lontano dall’idillio e dal semplice bozzetto, e comunica alla fine un senso di smarrimento e di inquietudine esistenziale.

“Alla stazione in una mattina d’autunno”: Il componimento, scritto nel 1875, rievoca un giorno d’autunno di tre anni prima, quando Lidia (Carolina Cristofori Piva) partì dalla stazione di Bologna. La poesia si organizza intorno a due temi principali strettamente connessi: quello del treno e della stazione ferroviaria, sentiti come simboli dello squallore del presente e della modernità, in contrasto con la bellezza classica della donna e dell’amore, che invece appartengono al passato; e quello del freddo, del fango, della pioggia, del tedio autunnale opposti al sole di giugno, al tepore estivo, al tripudio di vita del ricordo amoroso. Questo contrasto tematico diventa contrasto stilistico tra un lessico crudamente realistico e uno invece classico e nobilmente elevato. Nel suo insieme questa lirica appare il tentativo più coerente, fatto da Carducci, per inventare un classicismo moderno volutamente contraddittorio e per certi versi paradossale, in quanto consapevole dell’inconciliabilità fra la modernità e il classicismo.

L’ideologia del progresso: il topos del treno.
Il treno aveva ispirato al giovane Carducci l’Inno a Satana, dove era esaltato come simbolo stesso del progresso e della modernità.
Mentre però, nell’Inno giovanile, il treno era visto come “ bello e orribile mostro”, come un antidoto alla reazione religiosa nemica del progresso; successivamente, invece, Carducci lo definisce “ empio mostro”, in opposizione radicale ai valori dell’intimità e della classicità, dell’amore e della bellezza. In “ Alla stazione in una mattina d’autunno”, il progresso tecnico e la vita moderna sono respinti in quanto sinonimi di insignificanza, di vuotezza e di tedio, che rendono gli uomini (e il poeta stesso) simili a inerti fantasmi e la vita a un lugubre inferno. E’ evidente lo scarto rispetto alla politica di dodici anni prima: venuto meno l’entusiasmo combattivo e polemico, che allora induceva Carducci ad accettare la modernità assumendola come cavallo di battaglia contro le forze reazionarie, ora il poeta è tutto volto a difendere dall’industrializzazione avanzante, un mondo interiore che sta per essere travolto.
Difesa dell’interiorità, difesa del passato e difesa del classicismo diventano così una cosa sola.

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