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I signori del subappalto
Enzo Ciconte

Da decenni la storia si ripete: i grandi appalti vengono vinti da imprese insospettabili, ma i subappalti finiscono tutti in mano mafiosa. Risultato? Guadagni enormi per le cosche e opere più costose e di qualità scadente

Da quarant’anni a questa parte la storia della costruzione di tutte le grandi opere in Calabria conferma come la ’Ndrangheta, in un modo o in un altro, sia riuscita ad inserirsi in tutti i subappalti. Una delle ultime volte è successo poco tempo fa nel tratto cosentino dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, come ha dimostrato la Dda di Cosenza con l’operazione denominata “Tamburo”. È interessante ripercorrere i fatti salienti di questa storia.
Il prezzo della tranquillità
A metà degli anni Sessanta, quando finalmente si avvia il completamento dell’Autostrada del sole nel troncone che congiunge Salerno a Reggio Calabria, gli appalti vengono vinti dai grandi imprenditori del Nord, che avevano i mezzi economici e gli strumenti tecnici per effettuare l’opera. I subappalti, invece, finiscono tutti in mano mafiosa.
La cosa ancora più singolare è il fatto che ad affidare i subappalti ai mafiosi furono gli stessi imprenditori settentrionali. Il primo rapporto tra ’Ndrangheta e imprese è mediato da notabili e politici locali. In quel periodo la ’Ndrangheta fece un balzo in avanti e pose le basi per diventare la potente organizzazione di oggi. Su «La Stampa» di Torino, nel 1970 un giornalista scriveva che «in un certo senso questo nuovo tipo di mafia lo hanno generato i grandi impresari del settentrione». I vantaggi per le cosche furono evidenti: oltre ai subappalti, vennero assunti mafiosi o parenti di mafiosi e di confinati per garantire la sicurezza dei cantieri. Ma il vantaggio non fu solo economico, ce ne fu un altro forse più importante: la crescita del prestigio dell’impresa mafiosa per essere riuscita a far scendere a patti il grande imprenditore del Nord e qualche uomo politico.
Le imprese ottennero notevoli vantaggi, a cominciare dalla tranquillità sui cantieri: non c’erano scioperi, non c’erano né attentati né furti, ma un’assoluta pace sociale garantita dai mafiosi. Il costo pagato alla ’Ndrangheta da parte delle imprese ricadde tutto sui cittadini, perché le imprese richiesero, ed ottennero, la revisione prezzi e le varianti in corso d’opera dei lavori appaltati. Quello che doveva costare 100 finì per costare 120, con la complicità del potere politico e governativo dell’epoca.
Il meccanismo che aveva funzionato così bene durante i lavori dell’Autostrada del sole fu ripetuto negli anni Settanta. Dopo i moti di Reggio Calabria fu deciso di costruire a Gioia Tauro il quinto centro siderurgico italiano. Poco importava che a livello mondiale la siderurgia fosse in crisi. In questa occasione i mafiosi si improvvisarono imprenditori edili e iniziarono a comprare betoniere, ruspe, pale meccaniche, autocarri, camion per poter partecipare ai lavori. Chi aveva i soldi investì in questa direzione. Chi i soldi non li aveva se li procurò con i sequestri di persona al Nord.
Il metodo della concertazione
Iniziati i lavori i managers della Cogitau, il consorzio che appaltava i lavori a Gioia Tauro, andavano in giro accompagnati dal rampollo della famiglia Piromalli, quello stesso rampollo che fece gli onori di casa quando si mise la prima pietra per far partire il quinto centro siderurgico. All’inaugurazione presenziò, a nome del governo, il ministro del bilancio Giulio Andreotti. I Piromalli, che avevano mostrato di avere relazioni con il mondo imprenditoriale e politico, fecero una grande operazione di politica mafiosa: misero attorno ad un tavolo tutte le organizzazioni che contavano della ’Ndrangheta dell’epoca, da Reggio Calabria fino a Gioia Tauro. Fecero una specie di consorzio e si spartirono i lavori. È stato calcolato che i prezzi lievitarono del 15%. E, ancora una volta, chi doveva controllare non controllò.
Naufragata la costruzione del siderurgico, nacque un’altra “brillante” idea, condannata anch’essa a un sicuro fallimento, quella di costruire una centrale a carbone dell’Enel in una realtà che è sempre stata strategica per lo sviluppo turistico della regione: una vasta area che comprende oltre Gioia Tauro anche Tropea e Capo Vaticano, cioè due delle più belle località della Calabria. Una scelta sicuramente infelice. Ma prima del tramonto della centrale si provocarono altri guasti. Come sempre si avviarono i lavori, si spesero migliaia e migliaia di miliardi di lire, e ancora una volta una quota di questi andò alla ’Ndrangheta. Continuò il metodo della concertazione tra le imprese mafiose, e ciò ridusse i conflitti armati tra le famiglie. Durante i lavori per la centrale Enel la ’Ndrangheta si inventò le “associazioni temporanee di impresa” per riuscire a partecipare ai lavori. Questo meccanismo si rivelò un vero e proprio cavallo di Troia perché consentì alle imprese vincitrici degli appalti di allargarsi e di associarsi con quelle che non erano risultate aggiudicatarie.
Il ciclo del cemento
Può essere utile avere a mente questi fatti per comprendere meglio la situazione di oggi e le cose da fare. Soprattutto in relazione al progetto di costruzione del ponte sullo Stretto.
L’intervento delle due organizzazioni mafiose – ’Ndrangheta in Calabria e Cosa Nostra in Sicilia – nella fase di realizzazione dei lavori si può dare per certo? La storia che abbiamo alle spalle spinge a dare, purtroppo, una risposta positiva. Della Calabria abbiamo appena detto. E in Sicilia le cose sono andate in modo analogo. L’esistenza del cosiddetto metodo “del tavolino”, gestito con rara sapienza per conto di Cosa Nostra da Angelo Siino, che attraverso legami ben consolidati con politici e funzionari pubblici garantiva una perfetta e ben oliata “turnazione” nell’aggiudicazione degli appalti da parte di imprenditori collusi, conferma la permanente capacità di Cosa Nostra di inserirsi negli appalti pubblici, piccoli o grandi che fossero. In zone come la Calabria e la Sicilia che sono storicamente zone ad alta densità mafiosa, le attività essenziali per la vita e la gestione quotidiana dei cantieri di costruzione – il movimento terra, i trasporti, la fornitura di materiali inerti e calcestruzzi – sono nelle mani effettive di imprese mafiose o controllate dalla mafia che sono state acquisite con il taglieggiamento o con l’usura. I gruppi mafiosi non sono certo in grado di penetrare nella progettazione o negli interventi di alta ingegneria gestionale, ma sono sicuramente capaci di intervenire in tutte le fasi successive.
Come dimostra la storia di questi decenni, essi hanno avuto la capacità di formare una serie di società in grado di acquistare e gestire autocarri per movimentare via gomma, soprattutto in ambito locale, i materiali utili alla costruzione di un’opera, grande o piccola che fosse. Nello stesso tempo sono stati capaci di assicurarsi una penetrazione nelle ditte fornitrici di materiali impiegati nei cantieri, a cominciare dalla materia prima, ossia il cemento. È oramai assodata l’esistenza di un vero e proprio “ciclo del cemento”, che in ogni suo passaggio offre enormi opportunità alle organizzazioni criminali, a partire dal controllo delle cave e degli alvei dei fiumi per l’estrazione della sabbia e degli inerti.
La pace sullo stretto
La verità è che in questi anni imprese, ditte, pezzi interi dell’economia di queste due regioni sono finiti nelle mani dei mafiosi e questi ora sono in attesa dell’arrivo dei lavori perché sanno che chiunque vincerà gli appalti dovrà fare i conti con loro: tutti, infatti, avranno bisogno di materiale inerte, di camion per trasportarlo, di forniture di ferro, carpenteria metallica, tavole di legno ecc. Inoltre, occorre tenere conto delle novità intervenute nelle dinamiche interne delle singole organizzazioni. Quando nel 1984 il governo sembrava intenzionato ad avviare i lavori per il Ponte, scoppiò una guerra tra le famiglie legate ai De Stefano e quelle legate agli Imerti per il controllo dei terreni sui quali avrebbe dovuto essere costruita la campata calabrese. In Sicilia era in pieno vigore il regno di Riina con la scia dei morti che si è lasciata dietro fino alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Oggi sulle due sponde dello stretto vige un’assoluta pax mafiosa. Se i lavori si faranno nell’immediato futuro saranno realizzati nel massimo della collaborazione intermafiosa, anche perché non è mai accaduto che ’Ndrangheta e Cosa Nostra si facessero la guerra tra di loro; né accadrà adesso, perché non c’è motivo alcuno per farla.
Il problema da affrontare, quindi, non è solo un problema militare o giudiziario. È un problema di prevenzione e di controllo del territorio. Intendiamoci bene: controllo del territorio non significa solo più carabinieri e più poliziotti, anche se un adeguamento degli organici, compreso quello dei magistrati, non guasterebbe. Significa soprattutto controllo del territorio economico, cioè dei passaggi di proprietà dei terreni e delle imprese, un monitoraggio delle operazioni. Significa una radicale bonifica che porti all’espropriazione dei beni in mano ai mafiosi. Se non si colpisce l’economia mafiosa non si intacca il potere, il prestigio, la forza degli uomini delle cosche. E allora, se non si affronta di petto questa situazione, il Ponte, nonostante quello che ne dicono i suoi laudatori, non sarà un’occasione di sviluppo per il Sud, ma l’ennesima occasione per ingrassare ’Ndrangheta e Cosa Nostra.


 

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