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Amministratori nel mirino
Marco Nebiolo

Proiettili, incendi, bombe. Negli ultimi mesi in Calabria attentati e intimidazioni ai danni di politici, amministratori e imprenditori sono aumentati. E alcuni hanno deciso di gettare la spugna

C’è voluto un po’ di tempo, ma alla fine il Governo ha dovuto prendere atto della drammaticità della situazione calabrese. Il 23 ottobre il ministro dell’Interno si è recato a Reggio Calabria per partecipare alla seduta straordinaria del Consiglio regionale e dare una risposta alle invocazioni di aiuto che in questi mesi si sono levate sempre più insistenti da parte di imprenditori, amministratori locali, politici regionali, semplici cittadini. In quell’occasione Pisanu ha illustrato il Piano straordinario per la sicurezza predisposto dall’esecutivo per porre un argine all’“emergenza-Calabria”. Perché in questo pezzo d’Italia sono messi in discussione quotidianamente i principi della democrazia e della convivenza civile: il diritto di scegliere i propri rappresentanti politici, il dovere di amministrare nell’interesse comune e nel rispetto delle leggi, il diritto di fare libera impresa. Perché in questa regione, povera di servizi, di infrastrutture, di industria è cresciuta la più potente e invasiva organizzazione criminale italiana, la più ricca e internazionalizzata, la meno colpita dalle forze dell’ordine. Un’organizzazione che fa sentire ogni giorno il peso della sua presenza violenta.
Nella busta
i proiettili
La bomba (mediatica) è esplosa alla fine di agosto, con le clamorose dimissioni di Rocco Cassone, sindaco di Villa San Giovanni. Questa piccola cittadina in punta allo stivale è al centro di interessi rilevantissimi, legati alla costruzione della “grande opera” per antonomasia – il Ponte sullo Stretto – e agli appalti milionari per i cosidetti lavori preparatori: variante ferroviaria, riallocazione degli invasi dei traghetti pubblici e privati, nuovo porto turistico. Tutto ciò significa denaro in movimento, appalti da spartire. I finanzimenti promessi per rivoluzionare questo piccolo tratto di costa sono molti. La ’Ndrangheta si è mossa con largo anticipo: compravendita di terreni, soprattutto, per preparare future speculazioni.
La decisione fu presa da Cassone dopo aver ricevuto cinque proiettili recapitati in una busta attraverso il normale circuito postale. Cinque proiettili, uno per ogni componente della sua famiglia. E si trattava solo dell’ultimo episodio di una serie che aveva interessato lo stesso sindaco, alcuni assessori, il presidente del consiglio comunale. Il messaggio lanciato dal sindaco era chiaro: la ’Ndrangheta rifiuta questa amministrazione liberamente eletta, il voto dei cittadini non vale nulla. A comandare sono le famiglie della malavita. Il gesto delle dimissioni – rientrate qualche settimana dopo, in seguito alle trasversali manifestazioni di solidarietà e agli inviti a non mollare lanciati da vari esponenti politici nazionali – ha suscitato grande scalpore, ha squarciato un velo di silenzio che avvolgeva e nascondeva la progressiva degenerazione del clima politico e sociale in Calabria.
Villa San Giovanni infatti non è un’eccezione, ma un anello importante di una lunga catena. Un episodio che si inserisce in una strategia ben definita, finalizzata a imporre una ristrutturazione armata delle amministrazioni non allineate, non compiacenti. L’anomalia del caso Cassone sta solo nel clamore suscitato, mentre la strategia di una distribuzione pulviscolare delle intimidazioni – quotidiane ma quasi sempre non sanguinose – doveva tenere lontano l’attenzione dei media.
Ai primi di ottobre una soffiata del Sismi consente alle forze dell’ordine di sventare un attentato ai danni del sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti. Nascosti nei bagni del comune vengono trovati tre panetti di esplosivo, per un totale di mezzo chilo di tritolo. Poteva essere una strage. Un salto di qualità notevole: non una semplice minaccia, ma un tentativo vero e proprio. Se fosse esploso l’ordigno, adesso tutti parlerebbero di una nuova strategia, di terrorismo mafioso, di ritorno agli omicidi eccellenti. Scopelliti vive sotto scorta 24 ore su 24. Il fatto che solo pochi giorni fa, il 26 novembre, i carabinieri del Ros di Reggio Calabria, in collaborazione con il Sismi, abbiano sequestrato più di 70 kg di tritolo aumenta il timore che si concretizzino scenari funesti.
La tenaglia
di Serra San Bruno
Altrettanto grave la situazione in provincia di Vibo Valentia. Questo territorio è sottoposto al controllo di alcune famiglie criminali molto forti a livello di relazioni internazionali. Ci sono poi bande minori che sgomitano per conquistare un loro spazio. A luglio l’assessore ai lavori pubblici di Serra San Bruno, Giuseppe Raffaele, scampa per miracolo ad un agguato. Gli attentatori non volevano intimidire, volevano uccidere. Il lieto fine ha tolto visibilità in fretta anche a un episodio particolarmente inquietante perché il tessuto sociale di Serra San Bruno non aveva avuto fino a quel momento nulla da spartire con la storia della ’Ndrangheta, anche se nei suoi dintorni – nel decennio scorso – si è consumata la cosiddetta “faida dei boschi” con la sua scia di morti e feriti. Fatti che però non intaccarono le radici profonde di quella comunità. Dopo l’attentato, il sindaco Bruno Censore ha dichiarato: «Non abbiamo negato diritti a nessuno, anzi abbiamo lavorato per garantirli a tutti. Abbiamo fissato alcune regole certe, vincoli generali per tutti a difesa della collettività». Un’amministrazione in prima linea nella difesa della legalità, quindi, che in quanto tale viene presa a colpi di fucile. Secondo Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti di criminalità calabrese, «c’è una tenaglia che stringe questa comunità. Da una parte c’è la blasonata ’Ndrangheta del vibonese, che ha il suo epicentro nella famiglia Mancuso e nei suoi molteplici collegamenti con le cosche tirreniche della provincia di Reggio Calabria; dall’altra ci sono le famiglie di Nardodipace legate alle famiglie della ionica reggina. La famiglia Mancuso potrebbe essere in difficoltà, colpita da recenti operazioni delle forze dell’ordine e della magistratura. Analoghe difficoltà attraversano le cosche del reggino, anch’esse nel pieno di un processo di assestamento e riorganizzazione». Da questa situazione in ebollizione è probabilmente scaturita la fiammata della missione omicida ai danni dell’assessore di Serra San Bruno.
Nel mese di ottobre altri comuni del vibonese sono finiti sotto tiro. Il sindaco del comune di Gerocarne, Raffaele Schiavello, ha presentato le proprie irrevocabili dimissioni con una lettera inviata al prefetto Mario Tafaro e al Consiglio comunale. All’origine di questa grave decisione, un attentato incendiario contro l’auto della moglie. Non si tratta del primo atto intimidatorio contro l’amministrazione, ma probabilmente vedere il coinvolgimento diretto di un proprio famigliare ha indotto il sindaco a gettare la spugna. E lo si può comprendere: il suo è un piccolo comune, non si costruiranno grandi opere da quelle parti, la politica regionale e nazionale non si è mobilitata per sostenerlo. «Lascio per ritrovare tranquillità per me e per la mia famiglia», ha dichiarato. «Pensavo che potesse cambiare qualcosa in questi ultimi tempi, ma non è andata così».
A poche ore di distanza da queste dichiarazioni è stato colpito il comune di Acquaro, a pochi chilometri da Gerocarne. Ignoti hanno dato fuoco al portone del palazzo municipale. Un’altro avvertimento alle istituzioni. E l’elenco potrebbe continuare: nei primi sei mesi del 2004 sono stati 53 gli amministratori locali finiti nel mirino della criminalità.
Le lacrime
dell’imprenditore
La solitudine dei piccoli amministratori è un aspetto molto preoccupante della situazione calabrese. E fare normale amministrazione, in certe piccole realtà, richiede un assurdo surplus di eroismo che non dovrebbe essere richiesto in un tessuto democratico “normale”. Il sindaco di centrodestra di Cetraro Ciro Visca – un piccolo comune della costa tirrenica cosentina – ha annunciato a inizio ottobre di volersi dimettere in seguito all’assenza ingiustificabile dei rappresentanti dello Stato e della Casa delle libertà a una manifestazione contro la ’Ndrangheta. «Sono molto amareggiato e deluso: mentre il centrosinistra ha aderito, i politici di centrodestra sono mancati alla manifestazione».
Ma non sono solo gli amministratori locali ad essere oggetto di intimidazioni. Imprenditori e piccoli commercianti vivono la stessa situazione. Loro devono pagare, punto e basta. Perché in Calabria – dopo il Piemonte la seconda regione italiana per pressione fiscale – c’è un’altra tassa fissa: il pizzo. E su questa non ci sono bonus né sconti, l’elusione non è possibile, non ci saranno abbassamenti delle aliquote. Il 23 ottobre, il giorno di Pisanu al consiglio regionale, la tensione ha toccato l’apice quando ha preso la parola il presidente degli industriali calabresi Filippo Callipo. Proprietario della Tonno Callipo, presidente della squadra di pallavolo femminile promossa quest’anno in serie A/1, si è sempre distinto per la forza con cui ha difeso le ragioni degli imprenditori e denunciato le difficoltà strutturali del sistema-Calabria. Ma in quell’occasione Callipo ha abbandonato i toni istituzionali, il protocollo, e quando si è trovato di fronte l’unico interlocutore capace di dare risposte concrete, il ministro dell’Interno, l’emotività ha avuto il sopravvento. Non è un ragazzino sprovveduto, Callipo, né un ingenuo. Eppure, di fronte al Ministro, si è lasciato andare e, con gli occhi lucidi e la voce rotta, ha detto: «Mi dica lei cosa dobbiamo fare». Un tono insolito, per una persona così combattiva, che denuncia tutto lo sconforto di chi cerca di fare attività imprenditoriale in terre dove la legge non è uguale per tutti e le istituzioni non garantiscono la sicurezza. «Mio figlio, partendo per l’università, mi ha chiesto: sei proprio sicuro di fare l’albergo a Pizzo e la fabbrica di gelati a Maierato? Gli ho risposto con un sorriso, ma mio figlio capisce le mie perplessità inespresse. La prego signor Ministro, se ritiene mi aiuti, mi suggerisca una risposta concreta che sicuramente servirà anche per altri imprenditori».
Poche settimane prima i dipendenti della Tonno Callipo di Maierato avevano scoperto che nottetempo ignoti avevano sparato 5 colpi di pistola contro la porta di ingresso dello stabilimento. Callipo aveva denunciato l’episodio ai carabinieri: «Se chi ha sparato lo ha fatto per farmi tacere ha sbagliato completamente i suoi conti. Quanto è accaduto non basta. La prossima volta i colpi dovranno dirigerli verso di me». È un combattivo, Callipo, e probabilmente il suo ruolo gli impone fermezza. «Fino a quando sarò il presidente di Confindustria Calabria continuerò a parlare nell’interesse degli imprenditori calabresi e di tutti i miei corregionali, denunciando i mali e le arretratezze economiche che affliggono la Calabria».
Ma per pochi che hanno la forza di ribellarsi e denunciare, c’è una maggioranza piegata da una forza intimidatoria strabordante, che per tutelare la propria incolumità sceglie di abbassare la testa. La morsa della malavita sull’economia è sempre più stretta. «Nelle vie principali di Reggio, Vibo Valentia, Cosenza – ci dice Ciconte – resistono ancora le insegne di vecchi esercizi commerciali. Ma dietro le vecchie insegne, spesso si nascondono nuovi proprietari che hanno rilevato l’attività con la violenza, con l’usura e le estorsioni. A volte i nuovi padroni lasciano la proprietà nominale agli antichi proprietari per rimanere nell’ombra». E così cambia l’economia e il modo di fare impresa in certe zone nevralgiche della regione.
Mafiosità
in espansione
«Il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno», ha detto Pisanu citando don Sturzo. Facile a dirsi, in una regione con 200mila disoccupati, con il Pil più basso d’Italia, con 17 comuni sciolti per mafia dal 91 a oggi, più 250 atti intimidatori contro amministratori e imprenditori dal giugno 2001.
Non bisogna cadere però nella tentazione di sposare letture della realtà semplificatrici e assolutorie. Le organizzazioni criminali che perdurano nei decenni nonostante i cambi di regime, l’ammodernamento degli strumenti di contrasto legislativi e investigativi, poggiano le loro solide radici sul terreno fertile dell’ambiguità delle istituzioni, sulla trasversalità di interessi sporchi, sulla maggiore permeabilità alla criminalità delle società economicamente depresse. Così non è detto che tutti gli amministratori colpiti paghino la loro intransigenza verso l’illegalità e la lotta per un’amministrazione trasparente. In certi casi si colpisce anche chi non rispetta patti scellerati precedentemente intercorsi, che magari sono stati determinanti nel definire il responso delle urne per questo o quel candidato. Così alcuni non denunciano neppure le intimidazioni subite, altri denunciano e poi non collaborano alle indagini.
Alcuni episodi, invece, probabilmente non sono neppure ricollegabili direttamente alla ’Ndrangheta. È di nuovo Ciconte a mettere in luce questo aspetto: «Da parte di singoli cittadini è invalsa l’abitudine di pretendere quello che vogliono dagli amministratori. Pensano di poterlo ottenere con ogni mezzo, compreso l’uso della forza. Non sono appartenenti alle cosche, ma singoli cittadini che decidono di passare alle vie di fatto per ottenere qualcosa o vendicarsi di qualcos’altro, con metodi esplicitamente mafiosi». Insomma, non è la ’Ndrangheta che colpisce direttamente, ma la sua cultura diventa un modello adottato anche da chi è esterno alle cosche: violenza e prevaricazione non sono considerati disvalori, mentre la strada della legalità è sentita come un binario morto. Il dilagare di questa cultura è elemento di grande allarme in una Regione in cui la cultura dell’antimafia è più debole che in altre e in cui l’omertà è profonda e diffusa. In questa situazione le forze dell’ordine, da sole, non possono vincere la lotta alla ’Ndrangheta. Nonostante l’alto numero di affiliati (alcuni investigatori parlano di 5mila ’ndranghetisti solo a Reggio Calabria) e i tanti arresti – alcuni esponenti di vertice, come Morabito e De Stefano –, la mafia calabrese fornisce il minor numero di pentiti, specie di livello apicale, sottraendo agli investigatori uno dei più importanti strumenti di indagine. La verità è che lo Stato viene visto da molti calabresi come un’entità lontana, ininfluente. Il problema è che, in molti casi, è proprio così.

 

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