Proiettili,
incendi, bombe. Negli ultimi mesi in Calabria attentati e
intimidazioni ai danni di politici, amministratori e imprenditori
sono aumentati. E alcuni hanno deciso di gettare la spugna
C’è voluto
un po’ di tempo, ma alla fine il Governo ha dovuto prendere
atto della drammaticità della situazione calabrese.
Il 23 ottobre il ministro dell’Interno si è recato
a Reggio Calabria per partecipare alla seduta straordinaria
del Consiglio regionale e dare una risposta alle invocazioni
di aiuto che in questi mesi si sono levate sempre più
insistenti da parte di imprenditori, amministratori locali,
politici regionali, semplici cittadini. In quell’occasione
Pisanu ha illustrato il Piano straordinario per la sicurezza
predisposto dall’esecutivo per porre un argine all’“emergenza-Calabria”.
Perché in questo pezzo d’Italia sono messi in
discussione quotidianamente i principi della democrazia e
della convivenza civile: il diritto di scegliere i propri
rappresentanti politici, il dovere di amministrare nell’interesse
comune e nel rispetto delle leggi, il diritto di fare libera
impresa. Perché in questa regione, povera di servizi,
di infrastrutture, di industria è cresciuta la più
potente e invasiva organizzazione criminale italiana, la più
ricca e internazionalizzata, la meno colpita dalle forze dell’ordine.
Un’organizzazione che fa sentire ogni giorno il peso
della sua presenza violenta.
Nella busta
i proiettili
La bomba (mediatica) è esplosa alla fine di agosto,
con le clamorose dimissioni di Rocco Cassone, sindaco di Villa
San Giovanni. Questa piccola cittadina in punta allo stivale
è al centro di interessi rilevantissimi, legati alla
costruzione della “grande opera” per antonomasia
– il Ponte sullo Stretto – e agli appalti milionari
per i cosidetti lavori preparatori: variante ferroviaria,
riallocazione degli invasi dei traghetti pubblici e privati,
nuovo porto turistico. Tutto ciò significa denaro in
movimento, appalti da spartire. I finanzimenti promessi per
rivoluzionare questo piccolo tratto di costa sono molti. La
’Ndrangheta si è mossa con largo anticipo: compravendita
di terreni, soprattutto, per preparare future speculazioni.
La decisione fu presa da Cassone dopo aver ricevuto cinque
proiettili recapitati in una busta attraverso il normale circuito
postale. Cinque proiettili, uno per ogni componente della
sua famiglia. E si trattava solo dell’ultimo episodio
di una serie che aveva interessato lo stesso sindaco, alcuni
assessori, il presidente del consiglio comunale. Il messaggio
lanciato dal sindaco era chiaro: la ’Ndrangheta rifiuta
questa amministrazione liberamente eletta, il voto dei cittadini
non vale nulla. A comandare sono le famiglie della malavita.
Il gesto delle dimissioni – rientrate qualche settimana
dopo, in seguito alle trasversali manifestazioni di solidarietà
e agli inviti a non mollare lanciati da vari esponenti politici
nazionali – ha suscitato grande scalpore, ha squarciato
un velo di silenzio che avvolgeva e nascondeva la progressiva
degenerazione del clima politico e sociale in Calabria.
Villa San Giovanni infatti non è un’eccezione,
ma un anello importante di una lunga catena. Un episodio che
si inserisce in una strategia ben definita, finalizzata a
imporre una ristrutturazione armata delle amministrazioni
non allineate, non compiacenti. L’anomalia del caso
Cassone sta solo nel clamore suscitato, mentre la strategia
di una distribuzione pulviscolare delle intimidazioni –
quotidiane ma quasi sempre non sanguinose – doveva tenere
lontano l’attenzione dei media.
Ai primi di ottobre una soffiata del Sismi consente alle forze
dell’ordine di sventare un attentato ai danni del sindaco
di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti. Nascosti nei bagni
del comune vengono trovati tre panetti di esplosivo, per un
totale di mezzo chilo di tritolo. Poteva essere una strage.
Un salto di qualità notevole: non una semplice minaccia,
ma un tentativo vero e proprio. Se fosse esploso l’ordigno,
adesso tutti parlerebbero di una nuova strategia, di terrorismo
mafioso, di ritorno agli omicidi eccellenti. Scopelliti vive
sotto scorta 24 ore su 24. Il fatto che solo pochi giorni
fa, il 26 novembre, i carabinieri del Ros di Reggio Calabria,
in collaborazione con il Sismi, abbiano sequestrato più
di 70 kg di tritolo aumenta il timore che si concretizzino
scenari funesti.
La tenaglia
di Serra San Bruno
Altrettanto grave la situazione in provincia di Vibo Valentia.
Questo territorio è sottoposto al controllo di alcune
famiglie criminali molto forti a livello di relazioni internazionali.
Ci sono poi bande minori che sgomitano per conquistare un
loro spazio. A luglio l’assessore ai lavori pubblici
di Serra San Bruno, Giuseppe Raffaele, scampa per miracolo
ad un agguato. Gli attentatori non volevano intimidire, volevano
uccidere. Il lieto fine ha tolto visibilità in fretta
anche a un episodio particolarmente inquietante perché
il tessuto sociale di Serra San Bruno non aveva avuto fino
a quel momento nulla da spartire con la storia della ’Ndrangheta,
anche se nei suoi dintorni – nel decennio scorso –
si è consumata la cosiddetta “faida dei boschi”
con la sua scia di morti e feriti. Fatti che però non
intaccarono le radici profonde di quella comunità.
Dopo l’attentato, il sindaco Bruno Censore ha dichiarato:
«Non abbiamo negato diritti a nessuno, anzi abbiamo
lavorato per garantirli a tutti. Abbiamo fissato alcune regole
certe, vincoli generali per tutti a difesa della collettività».
Un’amministrazione in prima linea nella difesa della
legalità, quindi, che in quanto tale viene presa a
colpi di fucile. Secondo Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti
di criminalità calabrese, «c’è una
tenaglia che stringe questa comunità. Da una parte
c’è la blasonata ’Ndrangheta del vibonese,
che ha il suo epicentro nella famiglia Mancuso e nei suoi
molteplici collegamenti con le cosche tirreniche della provincia
di Reggio Calabria; dall’altra ci sono le famiglie di
Nardodipace legate alle famiglie della ionica reggina. La
famiglia Mancuso potrebbe essere in difficoltà, colpita
da recenti operazioni delle forze dell’ordine e della
magistratura. Analoghe difficoltà attraversano le cosche
del reggino, anch’esse nel pieno di un processo di assestamento
e riorganizzazione». Da questa situazione in ebollizione
è probabilmente scaturita la fiammata della missione
omicida ai danni dell’assessore di Serra San Bruno.
Nel mese di ottobre altri comuni del vibonese sono finiti
sotto tiro. Il sindaco del comune di Gerocarne, Raffaele Schiavello,
ha presentato le proprie irrevocabili dimissioni con una lettera
inviata al prefetto Mario Tafaro e al Consiglio comunale.
All’origine di questa grave decisione, un attentato
incendiario contro l’auto della moglie. Non si tratta
del primo atto intimidatorio contro l’amministrazione,
ma probabilmente vedere il coinvolgimento diretto di un proprio
famigliare ha indotto il sindaco a gettare la spugna. E lo
si può comprendere: il suo è un piccolo comune,
non si costruiranno grandi opere da quelle parti, la politica
regionale e nazionale non si è mobilitata per sostenerlo.
«Lascio per ritrovare tranquillità per me e per
la mia famiglia», ha dichiarato. «Pensavo che
potesse cambiare qualcosa in questi ultimi tempi, ma non è
andata così».
A poche ore di distanza da queste dichiarazioni è stato
colpito il comune di Acquaro, a pochi chilometri da Gerocarne.
Ignoti hanno dato fuoco al portone del palazzo municipale.
Un’altro avvertimento alle istituzioni. E l’elenco
potrebbe continuare: nei primi sei mesi del 2004 sono stati
53 gli amministratori locali finiti nel mirino della criminalità.
Le lacrime
dell’imprenditore
La solitudine dei piccoli amministratori è un aspetto
molto preoccupante della situazione calabrese. E fare normale
amministrazione, in certe piccole realtà, richiede
un assurdo surplus di eroismo che non dovrebbe essere richiesto
in un tessuto democratico “normale”. Il sindaco
di centrodestra di Cetraro Ciro Visca – un piccolo comune
della costa tirrenica cosentina – ha annunciato a inizio
ottobre di volersi dimettere in seguito all’assenza
ingiustificabile dei rappresentanti dello Stato e della Casa
delle libertà a una manifestazione contro la ’Ndrangheta.
«Sono molto amareggiato e deluso: mentre il centrosinistra
ha aderito, i politici di centrodestra sono mancati alla manifestazione».
Ma non sono solo gli amministratori locali ad essere oggetto
di intimidazioni. Imprenditori e piccoli commercianti vivono
la stessa situazione. Loro devono pagare, punto e basta. Perché
in Calabria – dopo il Piemonte la seconda regione italiana
per pressione fiscale – c’è un’altra
tassa fissa: il pizzo. E su questa non ci sono bonus né
sconti, l’elusione non è possibile, non ci saranno
abbassamenti delle aliquote. Il 23 ottobre, il giorno di Pisanu
al consiglio regionale, la tensione ha toccato l’apice
quando ha preso la parola il presidente degli industriali
calabresi Filippo Callipo. Proprietario della Tonno Callipo,
presidente della squadra di pallavolo femminile promossa quest’anno
in serie A/1, si è sempre distinto per la forza con
cui ha difeso le ragioni degli imprenditori e denunciato le
difficoltà strutturali del sistema-Calabria. Ma in
quell’occasione Callipo ha abbandonato i toni istituzionali,
il protocollo, e quando si è trovato di fronte l’unico
interlocutore capace di dare risposte concrete, il ministro
dell’Interno, l’emotività ha avuto il sopravvento.
Non è un ragazzino sprovveduto, Callipo, né
un ingenuo. Eppure, di fronte al Ministro, si è lasciato
andare e, con gli occhi lucidi e la voce rotta, ha detto:
«Mi dica lei cosa dobbiamo fare». Un tono insolito,
per una persona così combattiva, che denuncia tutto
lo sconforto di chi cerca di fare attività imprenditoriale
in terre dove la legge non è uguale per tutti e le
istituzioni non garantiscono la sicurezza. «Mio figlio,
partendo per l’università, mi ha chiesto: sei
proprio sicuro di fare l’albergo a Pizzo e la fabbrica
di gelati a Maierato? Gli ho risposto con un sorriso, ma mio
figlio capisce le mie perplessità inespresse. La prego
signor Ministro, se ritiene mi aiuti, mi suggerisca una risposta
concreta che sicuramente servirà anche per altri imprenditori».
Poche settimane prima i dipendenti della Tonno Callipo di
Maierato avevano scoperto che nottetempo ignoti avevano sparato
5 colpi di pistola contro la porta di ingresso dello stabilimento.
Callipo aveva denunciato l’episodio ai carabinieri:
«Se chi ha sparato lo ha fatto per farmi tacere ha sbagliato
completamente i suoi conti. Quanto è accaduto non basta.
La prossima volta i colpi dovranno dirigerli verso di me».
È un combattivo, Callipo, e probabilmente il suo ruolo
gli impone fermezza. «Fino a quando sarò il presidente
di Confindustria Calabria continuerò a parlare nell’interesse
degli imprenditori calabresi e di tutti i miei corregionali,
denunciando i mali e le arretratezze economiche che affliggono
la Calabria».
Ma per pochi che hanno la forza di ribellarsi e denunciare,
c’è una maggioranza piegata da una forza intimidatoria
strabordante, che per tutelare la propria incolumità
sceglie di abbassare la testa. La morsa della malavita sull’economia
è sempre più stretta. «Nelle vie principali
di Reggio, Vibo Valentia, Cosenza – ci dice Ciconte
– resistono ancora le insegne di vecchi esercizi commerciali.
Ma dietro le vecchie insegne, spesso si nascondono nuovi proprietari
che hanno rilevato l’attività con la violenza,
con l’usura e le estorsioni. A volte i nuovi padroni
lasciano la proprietà nominale agli antichi proprietari
per rimanere nell’ombra». E così cambia
l’economia e il modo di fare impresa in certe zone nevralgiche
della regione.
Mafiosità
in espansione
«Il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno», ha detto
Pisanu citando don Sturzo. Facile a dirsi, in una regione
con 200mila disoccupati, con il Pil più basso d’Italia,
con 17 comuni sciolti per mafia dal 91 a oggi, più
250 atti intimidatori contro amministratori e imprenditori
dal giugno 2001.
Non bisogna cadere però nella tentazione di sposare
letture della realtà semplificatrici e assolutorie.
Le organizzazioni criminali che perdurano nei decenni nonostante
i cambi di regime, l’ammodernamento degli strumenti
di contrasto legislativi e investigativi, poggiano le loro
solide radici sul terreno fertile dell’ambiguità
delle istituzioni, sulla trasversalità di interessi
sporchi, sulla maggiore permeabilità alla criminalità
delle società economicamente depresse. Così
non è detto che tutti gli amministratori colpiti paghino
la loro intransigenza verso l’illegalità e la
lotta per un’amministrazione trasparente. In certi casi
si colpisce anche chi non rispetta patti scellerati precedentemente
intercorsi, che magari sono stati determinanti nel definire
il responso delle urne per questo o quel candidato. Così
alcuni non denunciano neppure le intimidazioni subite, altri
denunciano e poi non collaborano alle indagini.
Alcuni episodi, invece, probabilmente non sono neppure ricollegabili
direttamente alla ’Ndrangheta. È di nuovo Ciconte
a mettere in luce questo aspetto: «Da parte di singoli
cittadini è invalsa l’abitudine di pretendere
quello che vogliono dagli amministratori. Pensano di poterlo
ottenere con ogni mezzo, compreso l’uso della forza.
Non sono appartenenti alle cosche, ma singoli cittadini che
decidono di passare alle vie di fatto per ottenere qualcosa
o vendicarsi di qualcos’altro, con metodi esplicitamente
mafiosi». Insomma, non è la ’Ndrangheta
che colpisce direttamente, ma la sua cultura diventa un modello
adottato anche da chi è esterno alle cosche: violenza
e prevaricazione non sono considerati disvalori, mentre la
strada della legalità è sentita come un binario
morto. Il dilagare di questa cultura è elemento di
grande allarme in una Regione in cui la cultura dell’antimafia
è più debole che in altre e in cui l’omertà
è profonda e diffusa. In questa situazione le forze
dell’ordine, da sole, non possono vincere la lotta alla
’Ndrangheta. Nonostante l’alto numero di affiliati
(alcuni investigatori parlano di 5mila ’ndranghetisti
solo a Reggio Calabria) e i tanti arresti – alcuni esponenti
di vertice, come Morabito e De Stefano –, la mafia calabrese
fornisce il minor numero di pentiti, specie di livello apicale,
sottraendo agli investigatori uno dei più importanti
strumenti di indagine. La verità è che lo Stato
viene visto da molti calabresi come un’entità
lontana, ininfluente. Il problema è che, in molti casi,
è proprio così.
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