

Africo, lo chiamavano treno del sole, attraversava la terra di Omero
di MARIA CRIACO
Lo chiamavano treno del sole. Attraversava la terra di Omero dove Ulisse affrontò Scilla per salvare la sua nave dal gorgo, luogo inaccessibile e sacro.
Con un fischio acuto tagliava l’aria, percorrendo un avamposto dove Dio ci passava solo per accendere di rosso vivo il cielo all’alba, ritornando al tramonto per spegnere le luci e sostituirle con le stelle. Una lunga colonna di ferro su un unico binario, sbuffando arrivava a fatica appesantito dall’enorme carico umano, ogni volto una storia, che sommata alle altre aveva lo stesso retrogusto di amaro smarrimento, fino ad un capolinea quasi sconosciuto. Una storia a memoria di chi è partito e chi invece è rimasto.
Una storia vecchia come la targa del treno, dove la ruggine è testimone del tempo che ha chiuso l’era delle valigie di cartone e dei viaggi lunghi una vita. Il fischio segnava la fine e l’inizio di un arrivederci bugiardo. Il suono secco dello sportello sibilava come uno schiaffo. Occhi lucidi che inseguivano fino all’orizzonte, un punto troppo vicino al cuore, con un distacco rassegnato. Lontano, città stravolte diventavano periferie/dormitorio, luoghi avari di tempo e calore, sostituivano distese di erba bruciata da un sole cocente insieme alla canicola di un fine agosto al frastuono delle cicale.
Cosa è rimasto di quegli anni? Cosa hanno costruito le partenze oltre agli abbandoni? Cosa rimane a parte un binario arrugginito e in disuso? L’unico cambiamento è che negli anni Trenitalia ha spogliato il nostro territorio metro per metro, fermata per fermata.
Oggi si viaggia con i pullman e con gli aerei, e l’emigrazione è diventata “svuotamento” in massa tra studenti e precari che inseguono il mito del “posto fisso” fuggendo da una terra pregna di bellezza e azzannata dai problemi, scivolando verso terre che già in passato hanno mostrato intolleranze a volte pesanti, regalandoci il marchio riconoscibile di “terroni” che a conti fatti ci distingue sicuramente in senso identitario e non dispregiativo.
Nella bilancia delle possibilità il peso delle partenze ha giocato il destino di un territorio, e di chi invece è rimasto, consolidando un pensiero atto a rinunciare ad ogni forma di azione e reazione, cristallizzando i disagi e nutrendosi di una politica fallimentare nelle questioni basilari, come la dignità di un lavoro che garantisca ogni diritto nella propria terra, e una sanità che sia pubblica e non un impero economico a vantaggio di strutture private, calpestando la dignità di chi i viaggi della speranza non se li può permettere.
Nella bilancia delle possibilità mi piacerebbe che ci fosse un inversione di tendenza, e che invece di emigrare i giovani tentassero di costruire un futuro con le possibilità che la nostra terra offre, se ripulita dalle erbacce, naturalmente questo richiede coraggio e testardaggine, costanza e forza, tutte le qualità che i nostri antecessori hanno dimostrato di avere in tempi passati e gloriosi, quando il nostro Sud era la prua della nave.
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