Italo Svevo (Ettore Schmitz), Approfondimenti di Storia e Letteratura

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Il suo vero nome fù Ettore Schmitz; figlio di un ebreo di origine tedesca e di un italiana, Italo Svevo cresce cittadino Austriaco fino al 1918, viene educato in un collegio tedesco (1874-78), vive in una città di confine come Trieste, marginale alla cultura italiana e a quella Austriaca, ma, a causa dei traffici commerciali e della sua posizione geografica, profondamente immersa nella mentalità mitteleuropea caratterizzata da differenze linguistiche e sentimenti irredentistici. In questa città crocevia di più popoli e “crogiuolo europeo”, Svevo viene influenzato maggiormente dalla cultura europea piuttosto che da quella italiana. Lo pseudonimo “Italo Svevo” sta difatti a rappresentare la sua consapevolezza di appartenere a due tradizioni culturali diverse, quella italiana e quella germanica.
Rimane 18 anni impiegato alla banca Union (1880-98) e nel 1896 sposa la ricca Livia Veneziani. Dal 1907 al 1920 inizia la formazione culturale di Svevo e la sua produzione letteraria. Muore nel 1928 a Motta di Livenza per incidente d’auto.

La formazione culturale: diviso tra positivismo e decadentismo.
Nel pensiero di Svevo confluiscono filoni culturali contraddittori e, a prima vista, difficilmente conciliabili: da un lato il positivismo, la lezione di Darwin, il marxismo; dall’altro il pensiero negativo di Schopenhauer e Nietzsche. Quanto all’evidente influenza di Freud, in essa agiscono elementi sia positivisti che antipositivisti.
Questi spunti contraddittori sono in realtà assimilati da Svevo in un modo originalmente organico, riconducibile a una precisa modalità operativa: dal positivismo e da Darwin ma anche da Freud, Svevo riprende la propensione a valersi di tecniche scientifiche di conoscenza e il rifiuto di qualunque ottica di tipo metafisico, spiritualistico o idealistico, nonché la tendenza a considerare il destino dell’umanità nella sua evoluzione complessiva. Tralaltro anche il marxismo non viene accettato da Svevo come soluzione sociale, ma solo come strumento analitico e come prospettiva critica di giudizio sulla civiltà europea e sui suoi meccanismi economici e sociali.
Anche da Schopenhauer Svevo riprende alcuni strumenti di analisi e di critica, ma non la soluzione filosofica ed esistenziale: non accetta infatti la proposta di una saggezza da raggiungersi con la “noluntas” (la rinuncia alla volontà) e con il soffocamento degli istinti vitali. Dal filosofo tedesco egli desume soprattutto la capacità di cogliere gli “autoinganni” e il carattere effimero e inconsistente delle ideologie e dei desideri dell’uomo. Lo stesso atteggiamento Svevo rivela nei confronti di Nietzsche e Freud. Da Nietzsche riprende la teoria della pluralità dell’io e la critica spietata dei valori borghesi; mentre da Freud riprende lo studio razionale e scientifico della psicanalisi senza accettarla però come ideologia o come terapia.

Il disagio esistenziale: la figura dell’inetto.
La causa principale del disagio esistenziale di Svevo trova le sue radici all’interno dell’ideologia borghese di quel tempo: Svevo si sente “un diverso” proprio per il fatto che i canoni e gli stereotipi della sua civiltà gli impongono un “modus vivendi” totalmente in contrasto con il suo modo di concepire l’esistenza. Coloro che non rispettano questi modelli “precompilati” di “uomo normale” (“Sano”), sono considerati diversi (“ammalati”). E’ proprio per questo motivo che Svevo, nella “Coscienza di Zeno”, difende i diritti dei cosiddetti “ammalati” rispetto ai “sani”. La nevrosi, per Svevo, è anche un segno positivo di “non rassegnazione” e di “non adattamento” ai meccanismi alienanti della civiltà, la quale impone lavoro, disciplina, obbedienza delle leggi morali, sacrificando la ricerca del piacere. L’ammalato è colui che non vuole rinunciare alla forza del desiderio. La terapia lo renderebbe sì più normale, ma a prezzo di spegnere in lui le pulsioni vitali. Per questo Svevo difende la propria “inettitudine”, che è una forma di resistenza all’alienazione circostante.

La poetica:”quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura”.
In Svevo è caduta ogni funzione sociale e ideologica della letteratura: essa è un’attività privata, un vizio. L’autore stesso la praticò in questo modo, senza illusioni e con molti disinganni, fino a pensare seriamente di abbandonare, dopo l’insuccesso del secondo romanzo, “quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura”.
Perché, allora, scrivere? La funzione si capovolge: non più estetica o sociale, ma conoscitiva e critica. L’intellettuale, identificato ormai con l’inetto, il diverso, il malato, il nevrotico, ricorre alla letteratura, estraniandosi dall’attività economica e dai modelli sociali, per recuperare la misura della sua esistenza (mediante l’autoanalisi) e dei rapporti sociali.

La Coscienza di Zeno: opera aperta.
La Coscienza di Zeno esce nel 1923 ed è l’autobiografia, seppur fittizia, dello stesso protagonista, Zeno, il quale, spinto dal suo psicanalista, si mette a scrivere la storia della sua vita, e il corso della sua nevrosi. Già nel titolo appare evidente che Svevo vuole sottolineare, con il personaggio di Zeno, la pluralità e l’ambiguità dell’io. Il termine coscienza può avere, infatti, due accezioni ambivalenti e contraddittorie: può essere intesa come coscienza morale o come consapevolezza delle proprie azioni; fatto sta che il vero punto di vista dell’autore non viene mai alla luce. Tant’è vero che Svevo utilizza la tecnica dell’ “io narrante” ovvero del protagonista narratore. Così facendo crea volutamente una sorta di equivoca ambiguità tra autore e voce narrante. E’ proprio per questo motivo che possiamo parlare di “opera aperta” , ovvero che lascia spazio alle interpretazioni del lettore. La coscienza è quindi, al tempo stesso, soggetto e oggetto conoscitivo: nell’indagare il soggetto si perviene inevitabilmente al lato conoscitivo di esso.

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