Gli “alàci”, i taralli della tradizione magnogreca

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A Gioiosa Jonica, Marina di Gioiosa Jonica, Caulonia e Roccella, nonché in altri comuni limitrofi a quelli menzionati, si conserva un’interessante prova della continuità gastronomica e linguistica della tradizione magnogreca, che nessuno studioso finora ha ritenuto di dover documentare, ad eccezione – ma solo marginalmente – del Rohlfs che, nel suo Dizionario dialettale della Calabria, sotto la voce “alàci”, offre la definizione alquanto vaga di “specie di frittura”, senza accludere alcuna spiegazione etimologica.

Gli “alàcia”, in effetti, sono sottili bastoncini di pasta fritta in forma di spirale irregolare; costituiscono a nostro avviso gli attuali eredi degli antichi taralli salati magnogreci, diffusi un tempo in tutto il Meridione d’Italia da Taranto in giù, celebri sin dall’antichità per la loro fragranza dorata e la genuina semplicità. Cinque sono gli ingredienti che ne compongono l’impasto: farina, lievito, acqua, olio e sale, i quali però sapientemente mescolati, danno vita a una bontà gastronomica che, come diremo a breve, ha da tempo superato perfino i confini nazionali.

La Calabria tuttavia non ha l’esclusiva di questo eccellente prodotto millenario; infatti lo ritroviamo pure nei paesi ricadenti nel territorio del Mani, una delle aree geografiche linguisticamente più conservative della Grecia continentale, dove detti taralli assumono la doppia denominazione di “lalànghia” (λαλλάγκια) e “lalàkia” (λαλλάκια). Da quest’ultimo termine, ossia dalla voce “lalàkia”, noi deduciamo il vocabolo calabrogreco *lalàcia, forma neutra plurale del greco lalàki / lalàci, base etimologica su cui – a nostro avviso – si genererà l’odierno “alàci” presente nel dialetto reggino.

La conferma più autorevole di ciò, ci viene data dall’illustre linguista ellenico Giorgio Babiniotis: attraverso il suo monumentale Dizionario della lingua neogreca (Λεξικό της Νέας Ελληνικής Γλώσσας, Atene 2002, p. 987) apprendiamo infatti che in Grecia esistono anche i lemmi lalanghìta / lalanghìda (λαλαγγίτα / λαλαγγίδα) che designano i succitati taralli nella versione dolce, guarniti cioè ancora caldi con abbondante copertura di miele. Per il Babiniotis tutti questi nomi che abbiamo fin qui pazientemente elencato hanno come radice etimologica la forma deverbale lalànghi (λαλάγγη) nel significato di “fritto nell’olio”, vocabolo proveniente dal verbo di età arcaica lalagò (λαλαγώ).

Quindi, come abbiamo visto, numerosi sono i tratti culturali comuni alle due aree linguistiche e geografiche esaminate: il Mani e la Locride. Innanzitutto sia in Grecia che in Calabria le famiglie considerano i lalàkia e gli alàci un piatto tipico delle festività religiose, da preparare in casa soprattutto in ricorrenza del Natale e dell’Epifania, inoltre, in entrambi i territori, oggi più che mai, il prodotto viene sempre più rivalutato dai consumatori, sicché molti rinomati panifici cominciano a renderlo disponibile anche durante tutto l’anno.

La cosa più interessante comunque che ho potuto verificare utilizzando la rete internet, è che nel mondo globale si trovano forni calabresi e greci anche all’estero, i quali, specie in Canada e negli Stati Uniti, propongono alàci e lalàkia anche alla loro più esigente clientela americana, mantenendo viva l’originaria forma magnogreca, ossia quella dell’impasto a bastoncino ricurvo (v. foto in allegato); mentre da noi, in molti panifici della Locride, l’intreccio della pasta è ormai divenuto molto più simile a quello della nacàtola, il dolce fritto più in voga nel reggino, presente in numerosi paesi della Piana e addirittura nel Cosentino, ad Acri, dove è noto col nome di scalella.

Pasquale Casile

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